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Ecco la vera storia del Sassare “impiccababbu”

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Il detto che attribuisce ai sassaresi l’epiteto di ‘Sassaresi impiccababbu ‘, sarebbe ora che ne sia risolta la storia e l’origine.
Alcuni anni fa quando la Torres giocava col Cagliari, vi era tra le parti, una rivalità di tifoseria alquanto litigiosa, e non bastavano gli aggressivi scontri fra tifosi e si mise ad ingiuriare anche un giornale sportivo umoristico di Cagliari, che si chiamava ‘la Gaggetta Sarda”, insultando in generale i sassaresi, in senso dispregiativo, con impiccababbu.
A quel punto ho sentito il dovere di scrivere a tale giornale una lettera, che peraltro fu pubblicata, con le scuse della redazione per le frasi ingiuriose prima scritte, nei confronti della comunità sassarese.
Ricordo che il testo recitava: Sappiate che il termine ‘impiccababbu” ci è stato attribuito nel Medio Evo, ai tempi dell’Inquisizione, il cui tribunale si trovava all’interno del Castello, purtroppo abbattuto alla fine dell’800 perché era diventato un rudere.
Nel castello operava un boia di cui nessuno, per motivi di opportuna rigorosità, conosceva il nome né il suo aspetto, neanche gli stessi giudici che emettevano le sentenze delle condanne a morte. Questo boia abitava in una piazzuola del centro storico, Largo Quadrato Frasso, che poi prese il nome di ‘Pattiu di lu diauru”. Usciva al mattino presto per prendere servizio e rientrava la notte tarda, con un mantello che lo avvolgeva interamente per non farsi riconoscere da nessuno. Questo, possiamo chiamarlo, diligente lavoratore, esercitava il suo particolare mestiere, con disciplina e rigorosità, come d’altronde prevedevano le dure sentenze.
Un giorno gli consegnarono un condannato a morte, legato e imbavagliato, per l’esecuzione, che avveniva in questi termini: il boia provvedeva a incappucciare il condannato, mettendolo su un carretto e trasportandolo nella Piazza del Duomo dove avvenivano le esecuzioni, dopo recuperava il cadavere e con lo stesso carretto lo trasportava per essere seppellito, o lo consegnava alla Confraternita di Orazione e Morte se il condannato non aveva parenti che lo avessero assistito per la sepoltura.
In quell’occasione, il boia si accorse che il condannato a morte era il suo figlio unico, che da qualche tempo era scomparso da casa e, mentre lo conduceva al patibolo, parlò con lui dicendogli: «Ma cosa hai combinato? Io sono tuo padre, potrei salvarti se mi prometti di rigar dritto per il resto dei tuoi giorni, io ormai sono vecchio e posso sacrificarmi per te; proseguirai la mia attività, intanto nessuno sa chi sono io. Il figlio piangente e pentito abbracciò il padre, si scambiarono le vesti e il cappuccio e quindi l’esecuzione del padre, senza che nessuno se ne accorgesse. Poi il trasporto per la sepoltura da parte della Confraternita e fine di una storia, che dopo tanti anni, il figlio rese pubblica prima di morire di vecchiaia.
Ecco cosi riabilitati i sassaresi, nel bene e nel male, con una morale, diversa da quella che era stata dipinta per tanti secoli, con l’appellativo d’impiccababbu, vero come fatto, ma dettato da un sacrificio umano del padre, nei confronti di un figlio scellerato che, allo stesso tempo, il padre ha riabilitato.

Tino Grindi

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