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Le stragi in Sardegna, storie di famiglie annientate dall’odio

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Torrenti straripanti di odio incandescente che nascono dagli abissi più profondi dell’anima, che trascinano, travolgono e spezzano, in un’orgia di sangue, vite di uomini, donne e bambini. Il senso della strage è qui, nell’incontenibile e furente carica distruttiva che annienta ogni senso di umanità in quello che è diventato un deserto dei sentimenti. L’odio, dunque. Il rancore che cresce, che esplode in una fiammata che incenerisce ogni remora, scardina ogni freno, cancella la pietà. È questo il filo che lega la storia delle stragi familiari in Sardegna. Perché, almeno finora, nella storia violenta dell’isola non si trova traccia di missioni di annientamento legate a regolamenti dei conti freddi e programmati all’interno di scenari di interesse o di conflitto. Insomma, niente a che vedere con le gelide geometrie di morte della subcultura di tipo mafioso.

In Sardegna, nella terribile logica della vendetta, è dunque sempre stato l’odio a rappresentare la spinta potente, la ragione e il fine, dello sterminio di un nucleo familiare.

Otto cadaveri straziati. Scavando nel passato rimergono storie spaventose e crudeli. La più terribile è sicuramente quella della strage di San Sebastiano avvenuta a Jerzu, la notte tra il 20 e il 21 gennaio del 1925. In quella notte fredda di vento pungente fu sterminata un’intera famiglia di otto persone. Dopo una festa organizzata in onore di San Sebastiano, il falegname Giovanni Boi, detto Giuanniccu, tornò nella sua abitazione di Funtana ‘e susu, con la sua numerosa famiglia poco dopo la mezzanotte. In quella notte la casa di Giuanniccu si trasformò in un mattatoio. Gli assassini, con una ferocia inaudita, uccisero prima il falegname: lo colpirono a colpi di mazza e poi lo finirono a coltellate. Come lupi affamati si precipitarono dentro l’abitazione e uccisero la moglie e la madre di Boi: Angelina Melis e Domenica Mura. Perduti in un delirio di sangue, gli assassini scannarono poi la sorella di Boi, Virginia, e i figli del falegname Assunta, Amelia e Luigina. Neppure il piccolo Mario, appena 16 mesi, fu risparmiato. La strage fu scoperta solo l’indomani a mezzogiorno quando il suocero di Giuanniccu, preoccupato per il fatto che il genero non fosse andato al lavoro, andò nella casetta di Funtana’e susu e trovò la porta socchiusa. All’interno trovò solo orrore e morte.

La festa dimenticata. Il paese tutto reagì e parlò. Così, cinque giorni dopo l’eccidio, furono arrestate cinque persone che, dopo il processo furono condannate all’ergastolo. Una di loro era un certo Antonio Serrau, il cognato di Giuanniccu Boi. Le vere cause di quel massacro non sono mai state chiarite e restano ancora un mistero. Si parlò della rabbia incontenibile di Serrau che sarebbe stato licenziato da Boi, ma anche di un’eredità contesa che aveva avvelenato i rapporti tra i parenti. Da quel giorno la festa di Sebastiano è stata rimossa dal calendario del paese. Esiste solo come un fantasma, ma per la gente di Jerzu ha perso ogni senso.

Si era andati perfino oltre i confini estremi dell’orrore che erano stati fissati a Orgosolo nel 1914 quando, nelle spire della storica disamistade vennero stritolate le vite di una donna e dei suoi quattro figlioletti. Alle 7 del mattimo del 21 settembre un gruppo di uomini fece irruzione nella casa di Maria Pisanu Podda, moglie di Antonio Devaddis, e la uccise a schioppettate. Gli assassini seguirono la spietata regola di estirpare sas radichinas della famiglia, cioè sopprimere perfino le radici della famiglia e così massacrarono anche i figli di Maria Pisanu Podda: Battista di 6 anni, Ortensia di 4 e Maria Francesca di 3. Ma il mostro non era sazio di sangue. Uno dei figli di Maria Pisanu Tola era scampato alla strage, il piccolo Antonio di appena un anno. Otto giorni dopo, la sua piccola bara bianca raggiunse in camposanto la sua famiglia: il 29 settembre fu ammazzato con una fucilata in una piazza del paese mentre era in braccio a una zia.

Violenza dopo la morte. Fuori dalle regole dell’odio codificato della faida è invece un altro eccidio familiare che provocò enorme impressione. È quello ricordato come la “strage della cantoniera di Tilipera”, avvenuta il 25 settembre del 1954. In un caldo pomeriggio di primo autunno fu annientata la famiglia di Vincenzo Adinolfi, 38 anni campano, della moglie Carmela Rinaldi, emiliana di 24 anni, e della figlia di 3 anni, Gina. Adinolfi era addetto alla manutenzione della strada Carlo Felice nell’altopiano di Campeda, tra Bonorva e Macomer. I carabinieri lo trovarono con il petto devastato da una fucilata proprio davanti alla porta della cantoniera. Spaventosa la scena che trovarono nella camera da letto: Carmela Rinaldi era stesa sul letto con la testa fasciata da un lenzuolo intriso di sangue. L’assassino l’aveva ammazzata con una fucilata al capo e l’aveva poi violentata. All’orrore si aggiunse altro orrore quando ci si accorse che la donna era incinta. La piccola Gina era invece morta, strangolata da un filo di rame. Per quel massacro un pastore che lavorava in un ovile vicino fu condannato a tre ergastoli, più 13 anni per la violenza sessuale.

La follia del latitante. Riconducibile a una folle vendetta, invece, la strage di Ollolai, avvenuta la notte di San Silvestro del 1966. Il latitante Antonio Casula, ricercato per una serie di sequestri di persona, fece irruzione nella casa del suo compaesano Salvatore Pira con il volto coperto da un fazzoletto. Pira era davanti al televisore insieme alla moglie Francesca Podda, al nipotino Michele Podda e a due amici del bambino. Il bandito fece uscire di casa i due amichetti e poi aprì il fuoco con il suo mitra: nessuno sopravvisse a quella tempesta di piombo. Le ragioni di quel delirio si sangue non sono mai state chiarite del tutto. Casula, dopo altri tre omicidi a Orani e l’uccisione di un poliziotto in un conflitto a fuoco vicino a Orgosolo, cadrà sotto i colpi dei “baschi blu” nello spiazzo di un distributore di carburante vicino a Paulilatino.

Quindici colpi per i Ruggiu. L’ultima strage familiare in ordine di tempo è quella della famiglia Ruggiu, nei dolci vigneti di Sorasi, vicino a Orgosolo. Era la fine di maggio del 1993. Vanni Ruggiu, un professore sassarese di 63 anni che aveva trovato l’amore a Orgosolo, paese labirintico di ombre, dove aveva scelto di vivere. Si era trasformato in ristoratore e il suo locale, “Ai Monti del Gennargentu”, era conosciuto in tutta l’isola. Quel giorno di primavera Vanni Ruggiu tornava dalla sua vigna di Sorasi insieme alla moglie Caterina Podda, 61 anni. Lei apparteneva a una delle famiglie più potenti e influenti del paese. Con loro, sul fuoristrada, c’era il figlio 35enne Pier Cosimo. Giovane irrequieto e legato ad ambienti pericolosi, pochi mesi prima era stato assolto nel processo per il rapimento dell’imprenditore sassarese Salvatore Scanu. E forse in quella vicenda, nell’abisso umano che lievita dietro ogni rapimento, c’è l’origine e la causa della strage.

Secondo i giudici, Pier Cosimo si era dato da fare per la liberazione dell’ostaggio e perciò non era condannabile perché aveva agito in stato di necessità. Ma di quel rapimento è indubbio che il giovane Ruggiu sapesse molto. E forse sapevano molto anche i suoi genitori. Chi pianificò l’agguato di Sorasi sicuramente cercò di sigillare i segreti del sequestro Scanu con la morte.

C’era però negli assassini una ferocia che andava oltre il calcolo. Una rabbia spaventosa sia nelle modalità della strage che nel volume di fuoco. In tutto furono esplose almeno 15 fucilate a pallettoni. Il segno di un odio infinito.

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