Press "Enter" to skip to content

I mestieri di una volta in Sardegna

condividi

Esistevano un tempo altri mestieri meno nobili, che a mala pena consentivano di rimediare lo stretto necessario per sopravvivere. È il caso de “s’acconciacòssius ’e scivèddas”, gridata a squarciagola da un girovago il quale invitava le massaie a far riparare (acconciài) le grosse conche di terracotta in cui si faceva il bucato (còssius) e quelle piccole destinate a svariati usi (scivèddas), che in qualche modo si erano spaccate e che egli, con graffe di ferro e mastice, riusciva a rimettere in uso.

Altro mestiere ambulante era quello dell’accuzzafèrri, l’arrotino, che, quando non disponeva di una bottega, andava di casa in casa, in qualunque condizione climatica, per procurarsi qualche lavoretto che gli consentisse di sbarcare il lunario.

Altra figura tipica è quella del “su maìst’e pannu” (il maestro di panni, ossia il sarto) che esercitava anche il mestiere “brabèri” (barbiere) soprattutto nei piccoli centri. La doppia professione non gli procurava grandi introiti poichè la gente, prima di ricorrere al sarto per confezionare un abito da uomo, usava rivoltare ripetutamente quelli usati o applicare pezze quando si sfondavano i pantaloni o si sgomitavano le giacche. Anche i tagli di capelli e le barbe erano impegni occasionali: i più preferivano i veri barbieri che, fra l’altro, esercitavano anche la domenica (la giornata di riposo era il lunedì).

Fra i mestieri del passato possono considerarsi quelli de “su ferrèri”, il fabbro ferraio che forgiava graticole e                    

spiedi, zappe ed aratri, chiavi e treppiedi, ma aveva anche l’abilità di ferrare i cavalli e de “su maìstr’e carru”, il maestro carraio il quale, oltre a costruire carri agricoli, provvedeva a rimettere in sesto quelli che avevano subito qualche danno: tutte figure che stanno diventando sempre più rare. Ancor più rara è quella del carbonaio. Per trasformare la legna (per lo più leccio e lentisco) in carbone vegetale, egli era costretto a stare mesi interi lontano da casa, dapprima per raccogliere la legna, poi per lavorarla ed infine per trasportare a spalla i sacchi di carbone fino ai carri che non potevano raggiungere tutte le zone impervie dove si operava. Né molto semplice era la costruzione della carbonaia (chea) in quanto bisognava predisporre alla base una gabbia in grado di reggere la pressione della legna che veniva ammucchiata, sopra con particolari accorgimenti, poi veniva coperta dalla terra per impedire l’accesso di aria, ed infine veniva acceso un fuoco all’interno, in modo da ottenere una parziale combustione. Il fuoco, alimentato e seguito con attenzione, in una quindicina di giorni trasformava la legna in carbone.In via di estinzione sono anche gli artigiani che confezionavano le scope. La materia prima, che consisteva nella palma nana e negli steli di una specie di papiro chiamato sessìni, si poteva raccogliere solo nella penisola del Sinis (ed infatti questo mestiere era molto diffuso a Zeddiani).

Al recupero della materia prima dovevano dedicarsi anche “is strescevenàius” che col fieno intrecciavano canestri di diverso tipo e misura (canistèddus, cìbirus, coffìnus ed altri). Entrambi questi artigiani, infine, si dovevano occupare della vendita che avveniva di porta in porta, andando in giro per i paesi della Sardegna. La stessa strada in declino hanno percorso gli impagliatori di sedie, soppiantati dalle moderne tecniche che, peraltro, prevedono l’utilizzo di materiali sintetici con risultati scarsamente entusiasmanti.

Scomparso del tutto è anche “s’obilèri”, un artigiano che realizzava chiodi, uno alla volta: un lavoro certosino i cui risultati, per quanto pregiati, non producevano grossi utili. E’ scomparso anche il “su mobentràsciu” che aveva il compito di accompagnare al pascolo gli asini quando non erano impegnati nel far girare la mola in arenaria in cui si macinava il grano. Con l’eliminazione di tali macine è venuta meno anche l’esigenza di servirsi di questo animale.

Altrettanto può dirsi per “su linnàiu” e “su fascinèri”: il primo vendeva la legna a chi non poteva procurarsela per proprio conto; il secondo vendeva fascine, ossia grossi mazzi di frasche a immediata combustione, indispensabili sia per scaldare i forni tradizionali, sia per avviare il fuoco del camino favorendo così l’accensione dei ceppi più grossi.

Altro mestiere superato è quello de “su caccigadòri” (il follatore), la cui opera consisteva nel pestare con i piedi i tessuti di lana ancora grezzi, in modo da dar loro compattezza e morbidità: ma già questa attività incominciava a tramontare con l’uso della gualchiera, un attrezzo che ammorbidiva i tessuti.

 E che dire dei venditori di neve? Va chiarito per inciso che la neve era considerata fino al secolo scorso un monopolio di Stato. Gli unici sardi ad essere esenti dal monopolio erano gli abitanti di Aritzo che, dopo aver recuperata la neve nei monti circostanti il paese, la conservavano in apposite grotte e, durante la notte, la trasportavano nelle località in cui era possibile venderla. Gli aritzesi confezionavano con la neve anche ottimi sorbetti, che nei Campidani erano chiamati carapìgna. Con l’avvento delle fabbriche di ghiaccio scomparve (nei primi decenni del ‘900) sia il monopolio della neve sia questa peculiarità di Aritzo.

condividi